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ESMO 2021 nel segno del tumore al seno metastatico

La conclusione del congresso dell’ESMO del 2021 restituisce diverse buone notizie per la cura del tumore al seno. La felice progressione di alcuni studi, considerati particolarmente promettenti, potrebbe infatti rivoluzionare la pratica clinica già nei prossimi anni.

Nonostante si sia svolto da remoto per il secondo anno consecutivo, il congresso della Società Europea di Oncologia Medica (ESMO), tenutosi tra il 16 e il 21 settembre, era circondato da grandi aspettative, soprattutto per quanto riguarda lo stadio avanzato del tumore al seno. Sono stati infatti presentati i risultati finali dello studio clinico MONALEESA-2 nonché quelli, ad interim, della fase 3 del DESTINY-Breast, di cui scriviamo più sotto. Il congresso di quest’anno era inevitabilmente incentrato sulle conseguenze del Covid-19 sulla salute di cittadini e pazienti oncologici. Secondo le stime dell’Associazione Italiana di Oncologia Medica (AIOM), la pandemia ha provocato la mancata diagnosi di circa 1 milione di tumori in tutto il continente. L’interruzione prolungata di screening e visite comporta l’individuazione tardiva delle neoplasie, peggiorando inevitabilmente la prognosi. Come se non bastasse, il lockdown e lo smartworking hanno favorito la diffusione di stili di vita deleteri ai fini della prevenzione oncologica. Oltre 10 milioni di italiani fumano regolarmente, il 16% consuma dosi eccessive di alcol e oltre un terzo degli adulti non pratica alcuna attività fisica o sport. Da qui al 2040, AIOM prevede un incremento del numero di nuovi casi che potrebbe crescere fino al 21%.

Tumore metastatico ER+/HER2-: la più lunga sopravvivenza mai raggiunta
Sono stati presentati i risultati finali dello studio clinico MONALEESA-2, il terzo di un insieme di trials che valuta, in popolazioni diverse, la combinazione di ribociclib con altri farmaci. Ribociclib è un inibitore selettivo delle chinasi ciclina-dipendenti (Cdk4/6) che ricade nella categoria delle cosiddette terapie mirate. Nello studio in questione, questa molecola è stata somministrata a donne in post-menopausa che convivono con il cancro al seno più comune, quello di tipo ormonale (ER+, HER2-), in combinazione al letrozolo che è un inibitore dell’aromatasi tra i più utilizzati nella terapia ormonale. Lo studio ha coinvolto quasi 700 pazienti in prima linea, cioè donne mai trattate prima per questo tipo di tumore. La sopravvivenza globale mediana è di quasi 64 mesi, che equivalgono a più di 5 anni. In altri termini, la metà delle pazienti vive più a lungo. Dopo cinque anni, è risultato che le donne trattate con la combinazione dei due farmaci avevano il doppio delle possibilità di sopravvivenza rispetto a quelle che assumevano il solo letrozolo. In MONALEESA-2, l’assunzione di ribociclib ha comportato, inoltre, una riduzione del 24% del rischio di morte, confermando i risultati dei due studi precedenti. Un altro numero che misura la portata dello studio MONALEESA-2 è che, a 6 anni di follow-up, quasi la metà delle donne, il 44%, è ancora vivo. “Sono dati mai visti con nessun trattamento in questa popolazione di pazienti. Gli inibitori di CDK4/6, inoltre, permettono di evitare il ricorso alla chemioterapia in prima linea o di posticiparla, con grandi vantaggi in termini di qualità di vita e di minori tossicità” ha commentato Pierfranco Conte, direttore della Divisione di Oncologia Medica 2 dell’Istituto Oncologico Veneto di Padova, all’Ansa.

Tumore metastatico HER2+: l’anticorpo-coniugato triplica la sopravvivenza

Procede a gonfie vele anche la sperimentazione dello studio DESTINY-Breast, del quale sono stati presentati i risultati preliminari della fase 3. Il protagonista del trial è l’anticorpo monoclonale farmaco-coniugato trastuzumab-deruxtecan che, secondo gli addetti ai lavori, rappresenta un’evoluzione di questo tipo di farmaci, non solo in termini di tollerabilità ma anche di efficacia. Deruxtecan è una molecola che agisce con meccanismo tradizionale, ma così potente da non poter essere somministrata in forma libera perché eccessivamente tossica per l’organismo. Coniugarla con un anticorpo monoclonale come trastuzumab, che riconosce i recettori HER2, permette di introdurla in maniera selettiva nelle cellule tumorali, risparmiando quelle sane. Una volta all’interno, il farmaco danneggia irrimediabilmente il Dna tumorale e inoltre è capace di attraversare facilmente la membrana plasmatica della cellula, raggiungendo quelle adiacenti. L’analisi a interim della fase 3 ha dimostrato che, nelle donne con un tumore al seno metastatico Her2+, il nuovo anticorpo-coniugato ha ridotto il rischio di progressione della malattia o di morte del 72% rispetto a trastuzumab emtansine, cioè l’attuale trattamento standard per le pazienti con un tumore di questo tipo non resecabile e/o metastatico, precedentemente trattato con trastuzumab e taxano. “Il beneficio osservato è di un’entità mai riscontrata prima nel carcinoma mammario. Non solo cambierà lo standard di cura, ma dimostra l’enorme potenziale di questa classe di farmaci a target molecolare, le cui prospettive appaiono brillanti”, ha commentato a Repubblica l’oncologo Giampaolo Bianchini del San Raffaele di Milano, che in Italia ha arruolato il maggior numero di pazienti nello studio.

Terapia anti-ormonale: la durata ottimale è di 7/8 anni

Né 5 né 10 anni. Il miglior rapporto tra benefici ed effetti collaterali nella terapia anti-ormonale adiuvante, prescritta per tutti i tumori al seno stimolati dagli ormoni femminili, sarebbe una via di mezzo: 7 o 8 anni. Durante l’ESMO sono stati presentati i risultati dello studio GIM4 condotto dal Gruppo Italiano Mammella, coordinato dal Policlinico San Martino di Genova. Ad oggi, la maggioranza delle donne con questo tipo di tumore al seno – più dei due terzi del totale – assumono farmaci che bloccano l’attività degli estrogeni per 5 anni mentre quelle considerate a maggiore rischio di recidive prolungano la terapia fino a 10 anni. Lo studio ha coinvolto 69 ospedali italiani, reclutando nell’arco di 5 anni 2.056 donne in postmenopausa operate per un tumore al seno ormonale. Dopo il trattamento di 2/3 anni con tamoxifene, le pazienti sono state assegnate casualmente a ricevere il letrozolo per i successivi 2/3 anni (per un totale di 5 anni di terapia, come da protocollo) oppure per altri 5 anni, per un totale di 7/8 anni di terapia complessivi (protocollo sperimentale). Tutte le donne sono state seguite in media per 12 anni. Dopo questo periodo è stato osservato che la sopravvivenza media del trattamento prolungato è del 4% più alto del trattamento standard e riduce il rischio di recidiva. Questo miglioramento, apparentemente insignificante, equivale tuttavia a una riduzione del rischio relativo di morte del 22%. A fronte dell’incremento della tossicità – e dunque degli effetti collaterali come osteoporosi e ipertensione, dolori ad articolazioni e muscoli –, una durata della terapia superiore a 7/8 anni non comporta miglioramenti nella longevità. I risultati dello studio potrebbero cambiare la pratica clinica già nei prossimi anni.