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Medicina di genere e gender bias: il diritto alla salute e le donne

Quello della medicina di genere è un concetto – o, per meglio dire, un’esigenza – relativamente nuova nel panorama della ricerca scientifica e dell’approccio al paziente. Per secoli, la pratica clinica è stata letteralmente modulata sulle peculiarità della biologia maschile, in base alla quale sono state elaborate le principali linee guida per la diagnosi, il trattamento e l’individuazione degli effetti avversi delle soluzioni terapeutiche. Lo sviluppo della medicina di genere capovolge questo schema, riportando l’attenzione sulle differenze non solo fisiologiche, ma anche socio-culturali, esistenti tra uomini e donne, allo scopo di rendere l’esperienza medico-paziente sempre meno astratta e sempre più ritagliata sulle necessità specifiche dell’individuo.  

Differente ma non distante è il concetto di gender bias, tradotto spesso come “stereotipi di genere”. Come i bias cognitivi, che rappresentano delle distorsioni nei giudizi basate su percezioni del tutto soggettive, i gender bias comprendono tutte quelle generalizzazioni, gli schemi di pensiero e i pregiudizi legati al genere di appartenenza; essendo pervasivi, possono impattare su tutti gli aspetti della vita quotidiana, dal lavoro fino alla salute.  
Nello specifico, le distorsioni legate al genere più frequenti nella pratica medica implicano non solo una maggiore attenzione verso le problematiche maschili e una minor inclusione delle donne nei trials clinici, ma anche la diffusione di convinzioni, spesso non supportate dai dati, che risultano limitanti se non pericolose – ad esempio l’idea che le donne siano meno capaci di sopportare il dolore. 

Studi clinici: una questione per soli uomini 

Gli studi clinici sono stati condotti solo su pazienti di sesso maschile fino al 1993. Una prassi, questa, diffusa tanto in Italia e in Europa quanto negli Stati Uniti, dove nel 1977 la partecipazione delle donne ai trials era stata esplicitamente proibita dalla FDA (Food & Drug Administration). Le motivazioni addotte riguardavano principalmente la necessità di proteggere la fertilità femminile, quindi di non mettere in pericolo possibili gravidanze in essere o future.  
Le cose intanto sono cambiate, ma non radicalmente: ad oggi le donne sono incluse negli studi ma in percentuali sin troppo ridotte. Secondo i dati dell’Istituto Superiore di Sanità, ad esempio, le partecipanti di sesso femminile rappresentano circa il 20/25% dei soggetti coinvolti nelle sperimentazioni relative alla sicurezza dei nuovi farmaci. Questo nonostante le evidenze scientifiche confermino quanto l’assorbimento e l’efficacia di una terapia siano condizionati da parametri che differiscono tra uomo e donna: composizione corporea, peso, sistema endocrino, metabolismo.  

Ciò implica che la formulazione dei dosaggi e l’osservazione degli effetti collaterali dei farmaci avvengano sulla base di quanto rilevato per l’organismo maschile, e solo successivamente siano adattati a quello femminile, a discapito delle sue specificità, particolarmente rilevanti in ambito farmacologico. Le donne, ci dicono i dati, assumono più medicine, si ammalano con maggior frequenza e risultano più esposte a reazioni avverse. 

Dolore cronico e ritardo diagnostico 

Dolore cronico e gender bias: qual è la correlazione? Prima di tutto, permane l’idea che gli uomini gestiscano meglio il dolore, quindi che le donne tendano a “esagerare” o quanto meno ad amplificare la portata delle sensazioni avvertite. Una convinzione dimostrata da uno studio scientifico condotto dall’Università di Miami e pubblicato sul Journal of Pain, nel quale attraverso una serie di test si è cercato di quantificare il peso del genere nella valutazione del dolore altrui. Gli esiti raccolti evidenziano come le donne siano state giudicate meno sofferenti rispetto agli uomini e soprattutto bisognose più di un approccio psicoterapeutico anziché medico. 

Diversi altri studi condotti nel Regno Unito hanno comprovato la difficoltà del personale sanitario nel valutare con oggettività il dolore femminile: al pronto soccorso, ad esempio, si stima che le donne attendano molto di più degli uomini, ricevano prescrizioni di antidolorifici oppioidi con maggior difficoltà e vengano spesso identificate come pazienti psichiatriche. Derubricare i sintomi riportati dalla paziente a psicosomatici, inoltre, conduce alla mancanza di esami diagnostici di approfondimento che in molti casi potrebbero fare la differenza tra intercettare una patologia in stadio precoce e scoprirla tardivamente. 

È il caso di molte patologie connotate dal dolore cronico e riguardanti principalmente le donne: si pensi ad esempio all’endometriosi, un processo infiammatorio causato dalla crescita del tessuto endometriale in sede extra-uterina, che si manifesta principalmente attraverso dolori di varia natura (mestruali, sessuali, pelvici). Sebbene colpisca circa il 10/15% delle donne in età riproduttiva, il ritardo diagnostico stimato per questa malattia è di 7 anni. 

Altrettanto complesso è il riconoscimento precoce della fibromialgia, patologia caratterizzata da dolori muscolo-scheletrici diffusi, oltre che stanchezza, confusione e disturbi del sonno. È una tra le sindromi reumatologiche più frequenti e colpisce quasi quattro milioni di persone, di cui il 90% è composto da donne: nonostante ciò, la diagnosi definitiva può arrivare anche dopo anni. 

Idem per molte altre malattie, alcune esclusivamente femminili – la vulvodinia, che interessa il 15% delle donne ma ad oggi non è ancora riconosciuta dal SSN – altre indipendenti dal genere: ad esempio il morbo di Chron, la cui diagnosi richiede 12 mesi per gli uomini e 20 per le donne, secondo un’indagine Eurordis, o le patologie cardio-vascolari, ritenute erroneamente più frequenti negli uomini. In realtà, con il sopraggiungere della menopausa e il venir meno dell’effetto protettivo degli ormoni femminili, il rischio di infarto diventa rilevante anche per le donne, al tal punto da essere la prima causa di morte. Intercettare in tempo l’evento cardiaco diventa più complesso: i sintomi femminili possono differire da quelli maschili ed essere ancora una volta confusi con quelli dell’area psicologica, come l’ansia. 

In attesa che il gender bias lasci il posto ad una medicina più inclusiva, tutto ciò che le donne possono fare è continuare ad ascoltare il proprio corpo e non mettere da parte le proprie sensazioni.